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Generazioni 1881-1907: la saga delle vite esemplari che fanno scelte che meritano di essere sbagliate

In author, Generazioni 1881-1907 on settembre 1, 2012 at 10:21 am

Una recensione-intervista di Simone D’Alessandro al romanzo di Gabriele Rubini

Ci vuole più fegato a rinunciare ai propri sogni, privilegiando il senso della responsabilità, o a inseguirli, rischiando di boicottare tutti i principi per cui ci si è battuti?

È un interrogativo che mi pongo ogni giorno. Questo dubbio amletico attanaglia anche Gabriele Rubini, scrittore anagraficamente contemporaneo, ma di foggia narrativa ottocentesca.

Il suo primo romanzo smentisce, di primo acchito, le affermazioni disincantate di Kundera che negli anni ’80 del secolo scorso, nella sua celebre raccolta di saggi intitolata “L’Arte del Romanzo”, decretava la fine del romanzo europeo. Rubini sconfessa l’infausta profezia dello scrittore praghese, dimostrando che si può ancora restituire al lettore la sensazione della “complessità” del vivere, il dolore delle scelte quotidiane e la disperazione del bivio esistenziale senza necessariamente cercare l’amabilità e la faciloneria. Il testo, poderoso, di oltre 600 pagine e l’argomento prescelto non assecondano le tendenze del momento. In uno stile neoromantico che non rinuncia all’insolenza della cruda realtà e che non vuole necessariamente rabbonire chi legge, raccontando storie consolanti, riscopriamo il bildungsroman. Rubini ci accompagna nel mondo ebraico a cavallo tra XIX e XX secolo, costruendo intarsi arabescati di dolore, onore, sconfitta, persecuzione e amore.

I protagonisti di questo viaggio sono stati per secoli i capri espiatori dell’umanità: gli ebrei. Perseguitati violentemente, sgarbatamente, gratuitamente; a volte anche retoricamente e ritualmente: vilipesi perché era “consuetudine” riversare odio nei confronti di un popolo che (a detta dei cinici) “ben si prestava”. Rubini racconta, con una dovizia priva di orpelli, le forme dei loro patimenti, mostrando anche i mille modi, spesso contraddittori, con i quali questo popolo eletto/reietto ha risposto. La disperazione di un popolo può erigere i confini del nazionalismo o i ponti del socialismo internazionalista. La persecuzione può determinare senso di superiorità o paura del mondo. La rabbia può agevolare il cinismo o la filantropia. L’emarginazione può rendere mercenari o ligi. Gli ostacoli fanno venir voglia di affrancarsi dal servaggio attraverso l’amore per le lettere o possono condurre alla dabbenaggine.

Se siete curiosi di sapere in quanti modi si può reagire alle ingiustizie e ai pregiudizi, dovete leggere questa saga. Rubini ci regala storie dentro la Storia e lo fa da esperto del settore, da studioso di cultura ebraica. Ma la sua scrittura non si concede come una meretrice. Le parole, semplici e pesanti come i sentimenti che descrive, si lasciano bere senza invitare al tracannamento.

Il loro incedere è altalenante all’inizio, smodatamente appassionato a metà dell’opera e inesorabile verso l’epilogo. Le vicissitudini di ebrei russi, francesi, americani, italiani diventano la metafora della ricerca di una terra promessa che ognuno di noi ha in testa. Secondo il parere di chi vi sta scrivendo in questo momento: quando gli sconfitti diventano esemplari, vuol dire che hanno raggiunto il loro scopo; ma quando qualcuno decide di rappresentare la sconfitta esemplare in forma di romanzo ha solo due scelte: annoiare o sconvolgere. Rubini, secondo me, si costruisce una terza via. Egli, lentamente, “avvolge” . Le sue parole assomigliano ai nostri pensieri in lotta. Ma quando i pensieri si affastellano non sono sempre felici, tuttavia sono sempre necessari. Ecco il punto decisivo che mi fa dire che questo romanzo va letto, è un male necessario. Avrei voluto saltare a piè  pari alcuni argomenti, ma non potevo. Avrei voluto rimandare i conti più duri con la verità amara di alcune riflessioni, ma la mia (falsa o peggiore) coscienza non me lo permetteva. Eppoi, se lo avessi fatto avrei perso l’opportunità di essere riportato verso la meraviglia di altri lidi, in certi capitoli che sembrano insenature in cui rifugiarsi per leccare le proprie ferite vedendo quelle degli altri, riscoprendo comunanze che ritenevamo appannaggio unico del nostro sentire.

Il mio intervento, tra l’altro, non vuol essere meramente una recensione, ma preludio a un’intervista che leggerete a seguire. Perché è doveroso per me, disperatamente alla ricerca dei propri simili, capire se, leggendo Rubini, mi sono sbagliato (o, peggio, distratto) oppure ho colto nel segno le intenzioni artistiche ed esistenziali di questo scrittore sardo-bolognese dalle venature yiddish. Lascio a voi la curiosità di scoprire se le mie parole “rimano” con le sue risposte.

 

Perché una storia lunga, epica, intricata, ebraica e che sa di “ottocentesco” anche quando spiana la strada al novecento?

Non so se il romanzo goda di buona salute, ma so per certo che per me non è mai morto. Amo un certo tipo di storie – storie ambiziose, di ampio respiro, che ti prendono per mano e ti portano via – e sono riconoscente a chi me le racconta. Per questo ho voluto provare a raccontare questa: è quella che mi sarebbe piaciuto leggere. Perché ebraica? A dire la verità, ho covato questo romanzo molto a lungo prima di mettere su carta la prima parola, ma su una cosa non ho mai avuto il minimo dubbio: sarebbe stata una storia ebraica. In parte, il motivo dell’ebraicità della storia si sovrappone a quello della mia predilezione per i romanzoni di taglio ottocentesco: tra gli autori che più amo ci sono Shalom Aleichem, Martin Buber, Isaac Bashevis Singer, Shmuel Agnon, Moshe Shamir… Hanno riempito tanti giorni della mia vita di parole ed emozioni raccontandomi un mondo affascinante e in larghissima parte perduto: ho voluto molto indegnamente tentare di rendere loro omaggio cimentandomi con quello stesso mondo – sperando di lasciare qualcosa di quelle emozioni in chi mi leggerà. Poi, però, c’è anche l’elemento della sfida: mi intrigava la prospettiva di costruire una storia complessa, una trama intessuta di numerosi fili narrativi di diverso colore e che potesse prestarsi a diversi livelli di lettura. Si tratta di una storia ebraica perché ci tenevo a parlare di certi temi – identità ebraica, anti-giudaismo e antisemitismo, Sionismo e Israele – sui quali si dicono tantissime cose e si sa pochissimo. Se chi legge cerca una storia avventurosa, un romanzo di intrattenimento, mi piace pensare che in Generazioni troverà ciò che cerca. Se poi dovesse cercare anche qualche notizia interessante, qualche informazione, qualche stimolo alla propria curiosità, mi piace pensare che possa trovare anche quelli.

 

In ogni capitolo c’è la storia di una famiglia e numerose storie di coppie. Qual è stata l’urgenza emotiva che ti ha spinto a parlare più volte di amori vissuti in condizioni difficili?

Non volevo scrivere un saggio, né avrei avuto le credenziali accademiche per farlo, ma volevo comunque fare emergere la Storia attraverso le storie. Non credo di avere inventato qualcosa di rivoluzionario ricorrendo all’espediente di raccontare vicende familiari di fantasia per fare emergere il contesto storico entro il quale si dipanano: credo che qualcosa del genere sia stato tentato con un certo successo anche da un tale Alessandro Manzoni… Qualcuno ha scritto che le storie felici annoiano in fretta e raramente valgono la pena di essere raccontate. Ora, premesso che la vita sa essere difficile per tutti, per taluni lo è più che per altri. Parlando di ebrei, avendo scelto di ambientare la narrazione in un contesto ebraico, ho inevitabilmente, consapevolmente e deliberatamente introdotto nella vicenda un elemento di difficoltà ulteriore. Vivere e amarsi in un mondo che ti odia richiede un quid di forza in più – un quid che non vorrei mai trovarmi a dover cercare. Ho sentito la necessità di tentare di indagare dove si annidi quel quid, senza vittimismi, senza pornografia del dolore e cercando di non essere didascalico, ma anche senza sconti o lieti-fine forzati. I miei personaggi non sono supereroi e non riescono sempre a superare le prove che la vita loro impone, ma ci provano: ci provano sempre. Sono troppo impegnati a vivere per farsi tante domande: quelle me le faccio io attraverso di loro – e spero che tanti lettori possano riconoscere quelle domande come proprie.

 

Da esperto di storia e da romanziere esordiente che idea ti sei fatto del dolore degli ebrei e come pennelleresti la loro identità?

Credo che il dolore degli ebrei non sia diverso dal dolore di chiunque altro, ma credo anche che nel corso della storia ci sia stata una particolare – come definirla? – ostinazione nel causare dolore agli ebrei: quasi le loro sofferenze procurassero un piacere tutto particolare ai carnefici del momento. La pazzia è un problema dei pazzi e l’antigiudaismo e l’antisemitismo dovrebbero essere un problema degli odiatori degli ebrei e degli antisemiti, ma purtroppo – come la storia si è tristemente e ripetutamente incaricata di dimostrare – non è così semplice e indolore. Sull’identità ebraica sono state scritte intere biblioteche e altrettante ne restano da scrivere. Non so se ho un contributo originale da offrire a questo proposito e non mi interessa dipingere santini: cose tremende del tipo “un popolo intelligentissimo”, o “moralmente superiore”… Proprio in questi giorni ho visto un’intervista televisiva a David Cassuto, che, parlando di Gerusalemme – la città della quale è stato vicesindaco – la descriveva come un luogo dove è possibile trovare oltre quaranta denominazioni cristiane, una quindicina di denominazioni musulmane e dove ogni ebreo è una denominazione in sé… E’ quel che cerco di restituire attraverso le storie dei miei personaggi: ciascuno di loro ha, credo, un modo diverso di vivere il suo essere ebreo – e queste differenze sono anche in larga misura il prodotto dal contesto nel quale si muovono. Ci sono ebrei che si sono quasi dimenticati di essere tali; ce ne sono altri ai quali non è mai stato consentito di dimenticarlo e altri ancora che non vogliono dimenticarlo; ci sono ebrei assimilati ed ebrei osservanti e tradizionalisti. Nel romanzo si parla di Sionismo – che non è la brutta malattia per la quale una certa pubblicistica polemica vorrebbe spacciarlo, bensì, in estrema sintesi, un ideale di emancipazione nazionale inserito a pieno titolo nell’alveo dei movimenti risorgimentali ottocenteschi. Detto questo, nel libro ci sono anche ebrei non sionisti. Ci sono i bundisti – esponenti del primo partito socialista e internazionalista fondato nei territori dell’impero zarista: un partito ebraico e anti-sionista. Ci sono i religiosi che hanno in antipatia sia i sionisti sia i bundisti e ne sono fieramente ricambiati. E poi c’è la grande massa degli agnostici: quelli per i quali vivere è più importante che stare a farsi tante domande su come farlo. C’è tanta roba, insomma…

Potresti essere stato colto dal sospetto che la sintesi non sia la maggiore delle mie doti – e avresti ragione – ma se dovessi sintetizzare la mia idea degli ebrei in pochissime parole, direi che sono un popolo straordinariamente normale, un universo multiforme, traboccante di vitalità, che sfugge alle catalogazioni e rifiuta di essere messo su un vetrino e indagato al microscopio.

 

Nel tuo libro, contano più i personaggi o le idee che diventano circostanze e che possono cambiare la Storia

Direi che contano entrambi in pari misura. Generazioni è un romanzo di intrattenimento. E in un romanzo di intrattenimento, i personaggi e le loro avventure hanno, direi, il compito istituzionale di prendere per mano i lettori e trascinarli nel loro mondo. Ho cercato di delineare i miei personaggi in maniera approfondita perché voglio che i lettori scelgano da quale di loro farsi prendere per mano e accompagnare in questo viaggio. Non ho voluto, insomma, figurine di carta schiacciate dalla Storia, anche se la Storia è essa stessa protagonista – e con lei le idee che questa Storia si proponevano di cambiare. I personaggi sono portatori di idee, ma le idee non sono semplicemente prese dallo scaffale di una biblioteca e appiccicate sui personaggi: ciascuno ci mette del suo, perché ciascuno vuole essere artefice del proprio destino – che poi ci riesca o no è un altro paio di maniche e lascio ai lettori il piacere di scoprirlo leggendo fino all’ultima pagina.

 

Come dicevo nel mio insufficiente prologo, nel tuo romanzo la Storia incontra le micro-storie. L’anarchia, la guerra di Crimea, quella tra Russi e Giapponesi; e poi i grandi personaggi come Carducci o Dreyfus. A volte il piccolo sembra far rima con il grande. Che idea ti sei fatto della Storia in generale? Un eterno ritorno dell’identico oppure, in ogni epoca, qualcosa cambia veramente?

Come dicevo, Generazioni è un romanzo, ma l’intento – nemmeno troppo nascosto, direi – è anche quello di raccontare e far conoscere la Storia attraverso le storie. Credo che mai come all’inizio di un nuovo secolo si viva la sensazione di un eterno ritorno: questo primo scorcio del XXI secolo è stato contrassegnato da convulsioni molto simili a quelle che segnarono la fine della Belle Epoque. Ma da qui a dire che tutto torna, sempre eguale a se stesso, credo ce ne corra – e questo è anche un auspicio, visto cosa è venuto, nel XX secolo, dopo le convulsioni dell’inizio…

Ogni generazione ha, rispetto alla precedente, il vantaggio di disporre di strumenti di conoscenza più efficaci e potenti. Anche se non è sempre detto che sappia o voglia usarlo al meglio, questo maggior capitale di informazioni e competenze ha già al suo interno il germe di una svolta, di una sterzata rispetto a ciò che è venuto prima. La sparo grossa: mi piacerebbe che Generazioni fosse letto da tante persone, perché ci terrei molto a che suscitasse curiosità nei confronti di una certa Storia – una Storia a lungo misconosciuta, travisata, falsata, ma che oggi è possibile conoscere meglio.

 

Leggendoti ho pensato a Lermontov, Gogol, Balzac, Mann, Tolstoy…non mi è venuto in mente nessuno scrittore vivente. Ma non so dirti se è stato per colpa dei contenuti, dell’epoca che descrivi o dello stile che utilizzi. Vorrei che mi spiegassi tu da quali mondi letterari provieni e quali sono state le scelte forzate delle tue parole.

Amo le storie ariose, ambiziose, che ti trasportano in un altrove lontano e ti lasciano tornare nel tuo mondo quotidiano solo quando giri l’ultima pagina. Tra gli autori contemporanei non mi vengono in mente tanti nomi ai quali associare questo tipo di storie: forse Vikram Seth e Sebastian Faulks… Di Faulks ricordo una bellissima intervista rilasciata in occasione del Festival della Letteratura di Mantova del 2008, in cui rivendicava il suo bisogno di avventurarsi oltre i confini del personale, del conosciuto, del direttamente esperito. Faccio mia questa rivolta contro il miniaturismo. Adoro il mio ombelico, ma non è detto che al resto del mondo interessi contemplarlo – e a me interessa pochissimo contemplare quelli altrui. Il che non significa, ancora una volta, che un racconto, per piacermi, debba avere una dimensione esclusivamente événémentielle: che le storie debbano dominare i protagonisti e trascinarli come rami morti nella corrente. Penso che in un romanzo debbano esserci passione, forza, lotta, entusiasmo, odio, compassione, amore, rancore, delusione, gioia, rabbia… – debba esserci, insomma, tutto ciò di cui è fatta la vita. Voglio appassionarmi alle vite di coloro che incontro nelle pagine di un libro, voglio che mi invoglino a ficcanasare in giro, ad aprire tutte le porte e tutti gli armadi, a imboccare tutte le strade possibili – e c’è un’unica cosa che non posso perdonare in una storia: l’essere una non-storia, il darmi l’impressione di non andare da nessuna parte. Se mi annoio, è finita. Ci sono romanzi che ho desiderato rileggere appena sono arrivato all’ultima riga dell’ultima pagina: penso al Barry Lyndon di William Thackeray, ai Quaranta Giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, alla Famiglia Moskat di Isaac Bashevis Singer, alla Trilogia del Cairo di Naguib Mahfouz, al Canto del Cielo di Sebastian Faulks, al Ragazzo Giusto di Vikram Seth, ma anche a racconti in certo qual modo meno “epici” come Ogni Cosa E’ Illuminata di Jonathan Safran Foer, Le Correzioni di Jonathan Franzen o Le Regole della Casa del Sidro di John Irving. Che descriva un mondo intero o una vicenda minima, penso che una storia debba crearlo, un mondo, un mondo in cui chi legge possa provar piacere a perdersi.

 

Infine, perché l’universo dei “gentili”  dovrebbe leggere questo romanzo?

In primo luogo perché è un gran bel libro! Secondariamente perché è una storia “universale”: una storia alla quale ci si può appassionare e nella quale penso ci si possa riconoscere a prescindere e indipendentemente dall’essere ebrei o gentili. Infine, ci tengo a precisare che io sono un gentile – e questa storia l’ho scritta pensando ai gentili come me, perché credo che gli ebrei la conoscano già – e che il problema stia nella non-conoscenza da parte di tutti gli altri.

Ripeto il mio personalissimo mantra: non ho mai pensato e non desidero che Generazioni sia un saggio o un testo fondamentale per la comprensione di alcunché. La sola idea di atteggiarmi a maître à penser mi fa sudare… Però ci terrei tantissimo a che suscitasse un po’ di stupore e un po’ di curiosità in chi lo legge. Ci sono cose che tornano e ci sono cose che non se ne sono mai andate. La paura dell’altro la metterei nella seconda categoria. Ed è una malattia autoimmune: se la minaccia non c’è, se la inventa. Gli ebrei in Italia sono meno di quarantamila, ma a dar retta a sondaggi e statistiche, anche nel nostro paese l’antisemitismo – o, se non proprio l’antisemitismo, perlomeno un certo qual pregiudizio nei confronti degli ebrei – è diffuso in maniera allarmante. Non importano le lezioni della storia – e soprattutto non importa che la stragrande maggioranza degli italiani non abbiano, statisticamente, mai incontrato ebrei in vita loro e non possano sapere se sono buoni o cattivi, belli o brutti, bianchi o neri, giusti o sbagliati. Il sospetto per ciò che non si conosce è quanto di più naturale vi sia – e, se siamo abbastanza bravi a coltivarlo, ci risparmia anche la fatica di tentare di conoscere ciò che abbiamo in sospetto: tu lì e io qui, tu fuori e io dentro… Intendiamoci: questa storia non vale solo per gli ebrei, ma credo che nel caso degli ebrei acquisisca una dimensione quasi inconscia. E’ un sospetto, un’ostilità, un odio metafisico, che perlopiù prescinde dal suo stesso oggetto: non ti conosco e non mi piaci…

 

Epilogo post-intervista: tra le parole si incontrano le anime che si leggono negli occhi

Un vecchio adagio ci dichiara, con soave disincanto, che spesso le parole non servono, ma sono tutto quello che abbiamo. Ci permettono di centellinare il nostro sentire, cercando di spiegare le nostre più intime ragioni, perché l’altro si accorga della nostra unicità perché la riconosca tra mille e la scelga. Questo ineliminabile bisogno di esclusività ci rende ostaggi di passioni illogiche, bisognosi di certezze e tremendamente eroici allo stesso tempo. Nel romanzo di Gabriele, dietro la storia di ebrei in fuga, si nasconde l’epica dell’amore, in tutte le sue possibilità. Quasi ogni capitolo viene “trapassato” dalle vicissitudini di questa normalissima improbabilità.

Così con Judah e Lyla, amanti giovani che decidono di abbandonare la Russia per raggiungere Eretz Ysrael, si celebra l’amore avventuriero. Con Daniele e Zita, giornalista lui, donna colta lei – che rinuncia allo studio per amore di lui – trionfa la devozione. Attraverso le disavventure del soldato in fuga Mendel, assistito dalla premurosa Judith, ci si imbatte nella passione salvifica. Con Antoine, soldato orgoglioso e Pauline, prostituta ingenua, vince il sentimento incurante del pregiudizio. Con Nathan, artista irrequieto, e Gisela, picchiata ripetutamente dal primo marito, arriva l’amore che offre una seconda chance. E, infine, con Samuel e Hadassah prende piede l’assoluto sognato da chi pretende di leggere, nelle intenzioni altrui, le disposizioni dell’eternità. La storia accade perché, in ogni tempo, due persone autenticamente legate, combattono per i loro sogni. L’amor che tutto move: questo è Storia, ebraica e gentile!   

Vi lascio con un dialogo che definirei straordinario perché semplicemente normale: si trova a pagina 517 del romanzo Generazioni 1881-1907 di Gabriele Rubini, ma anche nel primo paragrafo della vostra vita:

“Erano nudi dentro e fuori: ciascuno di loro leggeva l’anima negli occhi dell’altro. Non avrebbero potuto mentire, fingere, dissimulare: non in quel momento, non lì.

«Ti amo»

L’aveva detto lei?

L’aveva detto lui?

L’avevano detto insieme?

L’avevano detto l’uno nei pensieri dell’altro?

Cosa importava? Si erano stretti più forte e si erano assopiti.”

Così le generazioni passano, ciò che resta è scritto.