I grandi progetti dell'HC

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Gabriele Rubini: dal kibbutz a Generazioni

In Uncategorized on Maggio 17, 2011 at 2:51 PM

Gabriele, come si intitola e di cosa parla il tuo romanzo?

Il romanzo si intitola Generazioni, 1881-1907 e racconta le vicende di cinque famiglie ebree in un periodo storico molto tumultuoso. La storia comincia nella Russia del 1881, con i pogrom seguiti all’assassinio dello Zar Alessandro II, e si chiude – o meglio, si interrompe – nella Gerusalemme dell’inizio del XX secolo. Le diverse vicende familiari si dipanano lungo un percorso che tocca Russia, Italia, Francia, Stati Uniti, Inghilterra e Palestina Ottomana, passando attraverso guerre, rivoluzioni, grandi sogni, amori passionali e odi implacabili. Le famiglie protagoniste sono parto di fantasia, ma lo sfondo dal quale le loro avventure prendono le mosse nasce da un lungo e minuzioso lavoro di ricerca e documentazione. In questo quadro trovano posto anche diverse personalità reali della storia di quel periodo, con le quali i protagonisti si ritrovano a interagire.

Importantissimo avviso ai naviganti: Generazioni non è un saggio – è un romanzo. Trovo che il primo dovere della narrativa sia intrattenere e avvincere i lettori. Dopodiché, se l’intrattenimento può veicolare un’informazione, suscitare una riflessione, o stimolare una curiosità intellettuale, beh, allora non resta più nulla da desiderare…

A chi devi la tua formazione come scrittore?

Domanda difficilissima…

Sono ancora nella fase in cui, quando qualcuno si volta nella mia direzione e pronuncia la parola “scrittore”, mi volto a cercare di o a chi stia parlando. La sensazione è meravigliosa e titilla il mio smodato ego, però cerchiamo di non montarci la testa: Generazioni è l’opera prima di un autore sconosciuto. In un paese nel quale si pubblicano 170 libri al giorno, domeniche comprese, temo faticherebbe a farsi notare anche Alessandro Manzoni. Però questo non mi scoraggia dal provarci – e dal farlo nell’unico modo che conosco: da testone maniaco del dettaglio. In questo senso, anche se penso lo sorprenderebbe molto sentirlo, mio padre Mario è stata un’influenza pesante. Mio padre costruiva case e – con buon senso e arguzia petroniani – era solito dire che “a occhio non si va nemmeno al cesso”. Ecco il punto: non amo l’approssimazione, il “tanto poi lo aggiustiamo”. Penso ci voglia cura nel fare ogni cosa. Una storia è una casa: le parole sono i mattoni, il cemento, gli infissi e tutto ciò che serve a costruirla. Sbaglia il materiale o usalo male e la casa non verrà come dovrebbe. Voglio che la gente sia attratta dalle case che costruisco, che senta il desiderio di entrarci e ci si trovi tanto bene da non volerne più uscire. L’idea che storie e personaggi partoriti dalla mia fantasia finiscano tra le mani di qualcuno che li leggerà mi dà piacere.

La prima persona a cui devo la mia “formazione di scrittore” è – rullo di tamburi… – mia madre Olimpia. Mia madre, che ho perso sei anni fa, era poco istruita, ma aveva mutuato da suo fratello maggiore una passione sfrenata per la lettura – la stessa che ha trasmesso a me. Penso che la lettura sia il primo, imprescindibile ferro del mestiere per chi ambisce a fare della scrittura qualcosa più di un nobile passatempo.

Dopodiché, c’è lettura e lettura. La mia preferenza va alle storie di ampio respiro, ambiziose, epiche. Il primo titolo che mi viene in mente è Barry Lyndon di Thackeray: magniloquente, arioso, ironico, cinico al punto giusto… Steinbeck scriveva sotto dettatura diretta del Buon Dio e credo che il mondo sarebbe un posto di gran lunga meno interessante senza libri come Furore, La Valle dell’Eden o In Dubious Battle. James Ellroy, all’opposto, è demoniaco. American Tabloid ti si infila dentro a tal punto che per liberartene ci vuole un esorcismo. Le Benevole di Jonathan Littell mi hanno sconvolto e perseguitato durante e dopo la lettura: è un libro che non ti lascia come ti ha trovato. La Trilogia del Cairo di Naguib Mahfouz e Il Ragazzo Giusto di Vikram Seth odorano di polvere di vicoli e spezie e, quando giri le pagine, il colore che ne gronda ti si attacca alle dita e si insinua sotto la pelle: un gran peccato perdersi la sensazione… Sebastian Faulks mi ha preso per mano con Il Canto del Cielo: è carnale, passionale, intenso, crudele e lirico. Jonathan Safran Foer sa spezzarti il cuore e farti piangere dal ridere nello spazio di cinque righe e – come gli sentii dire in una meravigliosa intervista al Festival della Letteratura di Mantova del 2008 – la sua scrittura lenisce un dolore e gratta un prurito in punti che nemmeno sapevi di possedere. Il bambino dalle scarpe pesanti che cerca un padre che non tornerà in Extremely Loud and Incredibly Close e il nonno cieco che fa da autista a Jonathan e Alex in Ogni Cosa E’ Illuminata sono indimenticabili. Vorrei poterli definire con un aggettivo meno abusato, ma non me ne viene nessuno altrettanto efficace. I Quaranta Giorni del Mussa Dagh è, né più né meno, IL romanzo che avrei voluto scrivere io. Se mai dovessi incontrare Franz Werfel in un’altra vita, gliene canterò quattro per averlo scritto ottant’anni prima di me. Dulcis in fundo, Isaac Bashevis Singer: La Famiglia Moskat è la madre di tutte le saghe familiari!

Sei il primo autore che esce per la collana High Concept Novel diretta da Andrea Pitasi. Che idea ti sei fatto del progetto?

Evviva i matti di genio!!!!! Viviamo in un paese nel quale, a guardare i numeri, gli scrittori sembrano superare i lettori. Dato questo stato di cose, verrebbe fatto di pensare che non manchi niente, che qualunque genere o tipologia di narrativa sia ampiamente disponibile e si debba solo scegliere. In realtà, invece, un Crichton o un Forsyth italiano non sembra esserci. Adoro Forsyth e trovo che il semplice inserire il mio nome in un documento all’interno del quale compare anche il suo si configuri come lesa maestà, ma la domanda resta: perché in Italia i romanzi di Frederick Forsyth hanno tanto seguito, ma di Forsyth italiani non se ne vedono? High Concept Novel ha un progetto ambizioso: incubare e fare crescere nell’orto di casa una pianticella che nei paesi anglosassoni è già una fitta foresta. Essere stato scelto come prima fogliolina di questa pianticella mi riempie di orgoglio, di soddisfazione e, inutile negarlo, di ansia. Andrea Pitasi, la mia editor Chiara Trofino e tutto il loro team sembrano sapere esattamente quel che fanno, il che mi conforta, dal momento che io in questo momento mi sento come se qualcuno mi avesse chiuso in lavatrice e azionato la centrifuga…

L’autore high concept è, come da manifesto, un “esperto di una specifica professione che non a caso diventa la vera protagonista del romanzo”. In che modo la tua esperienza personale e le tue conoscenze specifiche entrano in gioco all’interno del libro?

Da sedici anni a questa parte io faccio il venditore. Passo una quota significativa del mio tempo a girare per l’Europa incontrando clienti e cercando di concludere affari con loro. Dopo tanto tempo, credo che questo lavoro mi abbia insegnato a guardare alla stessa cosa da più di una prospettiva – il che è né più né meno quello che cerco di fare con i miei personaggi. Nel mio romanzo, anche se ambientato oltre un secolo fa, si parla di temi ancora oggi estremamente controversi e dibattuti. Mi è piaciuto cercare di fare emergere posizioni e pensieri anche diametralmente opposti, argomentandoli con la medesima forza e passione: mi è piaciuto “essere” i miei personaggi e lasciarmi condurre da loro anche in luoghi oscuri. Non credo che questa latente “sindrome di Zelig” sia un’esclusiva dei venditori, ma suppongo che questo mestiere la acuisca e la cosa mi torna assai comoda quando scrivo i miei dialoghi.

Poi c’è anche qualcos’altro. Diciotto anni fa mi sono laureato in storia americana, con una tesi dedicata al periodo formativo della politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente. Prima di arrivare alla tesi e scegliere proprio quell’argomento, ho vissuto per quasi un anno in un kibbutz – esperienza che, a sua volta, è stata preceduta da una diecina d’anni di interesse assiduamente coltivato per la storia di Israele e del Medio Oriente. Quell’interesse è lo stesso che continuo a coltivare anche oggi. Non posso rivendicare alcun curriculum accademico che mi accrediti come “esperto” della materia. Però so con una certa precisione dove mettere le mani e cosa fare per dare una valenza storica alla trama. Già che ci sono ne approfitto per dire che Generazioni non è  un pamphlet agiografico: è un romanzo con forti, precisi e circostanziati agganci alla realtà storica. I lettori che cercano qualche spunto che stimoli la loro curiosità ne saranno, spero, compiaciuti. Quelli che invece si “accontentano” di una bella storia la troveranno.

Gabriele Rubini apre la collana High Concept Novel e si racconta

In author on Maggio 2, 2011 at 10:25 am

Nato nel 1967 a Nuoro, Gabriele Rubini vive – e sostiene di lavorare – a Bologna.

Appassionato di storia ebraica e del Medio Oriente, si occupa di cose piuttosto normali, ma coltiva lo snobismo di farle in maniera inusuale. Per esempio, si è laureato fuori corso – cosa di per sé persino banale – ma per riuscirci è arrivato a trascorrere un anno in un kibbutz in Israele. Era il 1988 e ancora adesso, che sia sobrio oppure no, sostiene di conservare un ricordo vivo e bellissimo di quei mesi passati a raccogliere pompelmi, vendemmiare, mungere vacche e andare alla scoperta di un paese normalmente straordinario.

Scrive per passione e… no: le sue storie NON sono autobiografiche. NON pensa che, per essere convincente, uno scrittore debba per forza occuparsi di cose vicine, NE’ che ai lettori debbano per forza interessare le cose vicine allo scrittore. Crede che tutte le cose, anche le più piccole, abbiano una loro poesia, ma NON pensa sia di per sé una grande idea riempire volumi con la poesia delle proprie piccole cose.

Per guadagnarsi da vivere si occupa di export. Si potrebbe pensare che un export manager e un romanziere siano reciprocamente attinenti quanto un’arancia e un pallone da calcio, ma… così non è – o almeno, non necessariamente. Negoziare e fare affari con persone diverse, che vivono in luoghi diversi e parlano lingue diverse ti costringe a guardare alla stessa cosa da più di una prospettiva: ti mette nella condizione di dover almeno provare a “uscire da te” e pensare da “altro”. Il vantaggio del romanziere è che solo a lui compete la facoltà di decidere se, quando e come aprire ogni porta, mentre il venditore può solo bussare.

A proposito di bussare alle porte: Gabriele è un tipo ospitale e queste formalità non gli interessano. Se vi va, entrate nelle sue storie e mettetevi comodi…

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